Presentato in Concorso alla Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica di Venezia, Mektoub My
Love - Canto Uno è un film di Abdellatif Kechiche, della durata di 3 ore. Nelle
nostre sale dal 24 maggio, distribuito da Vision Distribution.
Amin, un aspirante sceneggiatore che vive a Parigi,
ritorna per l’estate nella sua città natale, una comunità di pescatori del sud
della Francia. Occasione per ritrovare la famiglia e gli amici d’infanzia.
Accompagnato dal cugino Tony e dalla migliore amica Ophélie, Amin passa il
tempo tra il ristorante di specialità tunisine dei suoi genitori, e i bar del
quartiere e la spiaggia frequentata dalle ragazze in vacanza. Incantato dalle
numerose figure femminili che lo circondano, Amin resta soggiogato da queste
sirene estive, all’opposto del suo cugino dionisiaco che si getta nell’euforia
dei corpi.
Munito della sua macchina fotografica e guidato dalla luce eclatante
della costa Mediterranea, Amin porta avanti la sua ricerca filosofica
lanciandosi nella scrittura delle sue sceneggiature. Ma quando arriva il tempo
dell’amore, solo il destino, solo il mektoub può decidere.
Note del regista (Abdellatif
Kechiche)
"Mi piacerebbe restituire al cinema la sua dimensione
sacra, e vorrei che andassimo a vedere un film con lo stesso spirito con cui
partecipiamo ad una cerimonia. Anche se in molti pensano che sia un’illusione,
ho sempre mantenuto la convinzione che il cinema partecipi ad una nuova era, possibile,
dell’umanità. Mi sento tanto un regista quanto un artigiano di questa speranza.
Se perdessi questa mia visione utopistica, perderei insieme ad essa il
desiderio di fare cinema.
Aspiro a fare in libertà dei film che siano anch’essi
liberi, realizzati con pochi mezzi, e con l’intento di raccontare una storia,
di partecipare al risveglio dell’anima (anche se il mio spirito non è più
sveglio di altri). Sono cosciente che la mia anima è oscurata da questo nuovo
secolo. Senza essere un politico, le circostanze della mia nascita, le mie origini,
la mia carriera, fanno di me un’entità politica. Dentro di me, i miei pensieri,
i miei sentimenti, sono diventati politici perché la società mi ha
politicizzato.
Ho girato questo film perché, pur non essendo
biografico, riflette qualcosa di me.
Non volevo parlare di me, non volevo spiegarmi.
Tutti abbiamo avuto delle esperienze amorose in gioventù. Non ho la personalità
dei miei protagonisti ma posso identificarmi in ognuno di loro. Li guardo, li
osservo, li amo, tutto qui. Li analizzo senza giudicarli.
Mi fanno domande sul mektoub, sul destino, sulla
natura del bene e del male e sulla loro ambiguità.
Questo film è anarchico nel senso nobile del
termine, e cioè che mira a spezzare le catene della gerarchia. Il cinema
francese è ostile ai miei discorsi sulla libertà, e questo ha posto più di un
ostacolo all’esercizio della mia professione. Questo film induce ad una
riflessione sul significato della parola “destino”. Siamo predestinati? Siamo
governati da forze più gradi di noi? Qual è l’impatto della storia, delle
decisioni di alcuni, sulla vita di noi tutti? Esiste davvero il libero
arbitrio?
Il film si pone la questione di comprendere se gli
eventi a livello individuale abbiano ripercussioni su una famiglia o, più
ampiamente, su una nazione. E, viceversa, se le decisioni prese a livello
governativo abbiano un impatto sui gruppi e sugli individui. Può un intero
popolo essere chiamato alle armi? A distanza di decenni si tende a dimenticare l’azione
all’origine di eventi che influenzano il destino degli individui attraverso il tempo.
La mia non vuole essere una lezione, ma una visione. Lascio che lo spettatore giudichi
da sé.
Cercare la verità non vuol dire accusare. C’è una
spaccatura nella società, ed è necessario capirne l’origine. La Francia non è
una nazione bianca, bensì multiculturale e multireligiosa.
Questo film vuole essere un inno alla vita e alla
luce, un’ode alla bellezza, una storia gioiosa ed euforica che analizzi le
conseguenze di azioni passate sul presente. Questa luce è la libertà di
pensiero, la libertà che rivendico".
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