di Silvia Sottile
Mufasa: Il Re Leone, in arrivo il 19 dicembre nelle sale italiane, esplora l'improbabile ascesa dell'amato re delle Terre del Branco. Il nuovo film di Natale Disney è diretto dal premio Oscar® Barry Jenkins. Noi abbiamo visto in anteprima i primi 40 minuti di Mufasa: Il Re Leone e abbiamo incontrato il regista in conferenza stampa.
Ecco cosa ci ha raccontato:
La
Disney l’ha voluta fortemente per questo film. Come ha reagito quando le hanno
proposto di dirigere Mufasa?
“Non ho mai
capito perché la Disney volesse che io dirigessi questo film. Non potevo
pensare che il regista di Moonlight potesse essere la persona giusta. Quando
sono venuti da me la prima volta ho detto no, senza neanche aver letto la
sceneggiatura. Ero in macchina, il mio agente mi ha chiamato dicendomi che la
Disney mi voleva per dirigere un film su Il Re Leone, io ho detto no. Mi ha
risposto che non potevamo dire di no alla Disney e quindi hanno aspettato. Mi
ha anche detto una cosa positiva, che non potevano leggere loro la
sceneggiatura ma potevo leggerla solo io. Dopo 8 giorni mia moglie mi ha detto
che avrei dovuto leggerla perché sarebbe stato infantile da parte mia dire no
senza consentirmi di vedere di cosa si trattasse. Quindi ho iniziato a
leggerla. Il motivo per cui avete visto i primi 39 minuti e 15 secondi è perché
lì ho fermato la mia prima lettura, mi sono girato verso di lei e le ho detto
che era fantastico, forse c’era qualcosa per cui avrei dovuto prendere in
considerazione la realizzazione di questo film. È stata la sceneggiatura che mi
ha conquistato”.
Perché
così tanti autori indipendenti come lei, Choé Zhao, Greta Gerwig (per Barbie), hanno deciso di lanciarsi in
franchise mainstream?
“Credo perché
noi siamo la prima generazione che è cresciuta con questi franchise che non
esistevano negli anni ’60, ’70. Una prima generazione che include me, Greta
Gerwig, Ryan Coogler, tutti amici con i quali ho parlato prima di accettare.
Siamo la prima generazione cresciuta con questi film, questi franchise
mainstream che sono i film della nostra infanzia. Vedere una cosa come Il Re
Leone o Toy Story o Die Hard o Terminator 2, Independence Day… questo è cinema!
Questo è il cinema con il quale sono cresciuto. Avrei voluto crescere qui (in Italia),
magari con tutto il cinema che ha vinto il Leone d’Oro, ma non è stato così.
Quindi quando questi film arrivano a noi, non sono un’altra cosa, sono solo una
parte diversa della mia vita. La mia vita è divisa in due fasi: i film che ho
guardato prima di andare alla scuola di Cinema e poi i film che ho guardato
dopo la scuola di Cinema. La cosa fantastica di questo film – perché per me si
tratta specificatamente dei personaggi e del film, Il Re Leone, che hanno amato
le persone in tutto il mondo – è che io sono qui a Roma, c’è qualcuno che mi
traduce, sono andato a Madrid, a Parigi, c’è qualcuno in Corea, in Giappone,
perché questo film esce in tutto il mondo. È un simbolo culturale, da 30 anni
sappiamo che Mufasa è grande perché è grande, è re perché il padre era re, il
nonno era re e che tutti coloro che sono nati in questo percorso possono
diventare re. Che Scar è cattivo perché è nato cattivo. Eppure io ho sempre
creduto alla teoria che dipende da come vieni cresciuto. Come avete visto in
questi 40 minuti, Mufasa perde tutta la sua famiglia e viene portato da Taka
nella sua famiglia. Il papà di Taka è la persona cattiva, gli dice tutte le
cose negative. La madre di Taka invece dice a Mufasa tutte queste cose
bellissime, di essere unito alla terra, di seguire le sue sensazioni. Dal
momento che uno viene cresciuto da un genitore, mentre l’altro viene cresciuto
dall’altro genitore, vedi come proseguono a condurre vite completamente diverse,
diventano anche persone completamente diverse. Mi è piaciuto anche il fatto che
la monarchia e le leadership non sono necessariamente determinate da dove sei
nato ma dalla comunità che costruisci intorno a te e dalla vita che conduci.
Tutte le persone in tutto il mondo guardano questi film. Ho fatto tutto quello
che volevo affrontare con questo film così grande. Dovevo farlo, non avevo
altra scelta”.
Quali
sono i film della Disney che l’hanno fatta crescere e che l’hanno fatta sentire
accettato?
“Domanda
insidiosa. La Sirenetta, Il Re Leone che ho amato molto perché l’ho visto tante
volte con i miei nipotini. Ma quello che mi piace di più è Fantasia. Ho sempre
pensato che ci fosse qualcosa di bello nel modo in cui la Disney utilizzava le
immagini come metafore e mi piace moltissimo questo personaggio che si muove
con gli oggetti che creano una magia. Quando ho iniziato ad affrontare questo
film volevo portare un po’ della magia di Fantasia nell’universo. È un film in
live action dove c’è la canzone Milele, il terreno cambia colore, tutte queste
farfalle che vengono fuori dal nulla, poi Mufasa fluttua nello spazio, è verde,
è rosso, è come Dante, deve attraversare quest’altro reame, non sappiamo né
dov’è né perché è lì. Raggiungendolo si sente questo suono che lo riporta
indietro alla realtà. Nella Disney si può iniziare a fluttuare e poi tornare
indietro dall’altra parte”.
La
più grande sfida è stata tecnologica o musicale? C’è la colonna sonora di Lin-Manuel
Miranda
“Lin-Manuel
Miranda, che ha scritto le canzoni del film, è intervenuto velocemente, fin
dall’inizio. Io non avevo mai fatto un musical, mi piace fare cose che non so
come fare ma devo sempre avere intorno qualcuno che sa come si fanno. Lui è
intervenuto da subito, è stato molto chiaro dicendo che gli piaceva molto
l’eredità di The Lion King, non voleva sostituire quella canzone. Le canzoni
dovevano aiutare a raccontare la storia, non dovevano sostituirla o distrarre
dalla storia. La più grossa sfida non è stata la musica perché Lin-Manuel Miranda
e i miei collaboratori hanno lavorato insieme per creare questa musica
meravigliosa. La tecnologia è stata più difficile. Mi piace fare film con gli
esseri umani, avere tutte queste persone in una stanza, su un set, che sono
tutti seduti sotto la stessa luce, sentiamo lo stesso vento, abbiamo le
macchine da presa, gli obiettivi, gli attori si muovono tutti, cerchi di far
lavorare tutti di concerto in modo da poter cogliere e inserire una specie di
lampo in una bottiglia. Impossibile con la tecnologia, richiede molto più
tempo, devi imparare a utilizzarla in maniera tale da padroneggiarla, piuttosto
che far sì che la tecnologia padroneggi noi. Era la tecnologia al nostro
servizio e non il contrario. Questa è stata la parte più difficile. C’è voluto
un anno e mezzo per arrivare a questo punto, c’è voluta tanta pazienza. E poi
ci sono voluti in tutto 4 anni. Negli ultimi due anni e mezzo in effetti
abbiamo fatto il film”.
Si
diceva che questo non sarebbe stato un film di Barry Jenkins, invece da queste
prime immagini scopriamo che è proprio un film di Barry Jenkins. Come ha
lavorato per portare la sua poetica in questo film? Lei che sogni ha oggi per
il suo paese?
“Grazie
per aver detto che è un film di Barry Jenkins. Quando ho letto la sceneggiatura
ho pensato che poteva diventare un film di Barry Jenkins. Con tanto lavoro, ma
ci poteva diventare. Coloro che hanno fatto gli effetti speciali sono stati
molto generosi con me. Dovevo cercare di capire come far funzionare questo
processo nel mio modo di lavorare. Mi servivano anche le persone che lavorano
sempre con me. Volevo che fossero coinvolte in questo processo. Quindi il
direttore della fotografia, scenografo e montatrice. I film sono costruiti da
questi tre blocchi. Io e queste tre persone abbiamo imparato a capire gli
strumenti che possiamo cominciare a piegare alla nostra volontà e la società
degli effetti speciali è stata molto aperta con noi. Dal momento che questi
personaggi si muovono su 4 gambe, mentre gli esseri umani su 2, non potevamo
fare come ne Il Pianeta delle Scimmie. Quindi abbiamo prima registrato le voci
degli attori, abbiamo fatto una specie di radio dramma. Poi il film è stato
montato basandosi sulle voci. Prima l’abbiamo proiettato su nero, poi sono
arrivati gli storyboard che corrispondessero e da lì abbiamo creato una
versione PlayStation 3 del film. Poi dovevamo girare in realtà virtuale ma ho
trovato un problema. Con gli esseri umani si può capire cosa prova un’altra
persona, anche senza parole, con lo sguardo, un movimento, un’espressione.
Ovviamente questo non si vede con i leoni. Era importante trasmettere tutto col
movimento fisico e questo l’animatore non lo può fare. Allora abbiamo trovato
un modo: invece di coinvolgere gli attori per il motion capture, abbiamo
portato con le tute gli animatori perché loro sapevano come tradurre il
movimento da due gambe a quattro. Hanno cominciato a disegnare con il corpo.
Proiettavamo sullo stage il suono delle voci degli attori ed è stato più
semplice. È stato molto forte per me che dovevo dirigere gli animatori con le
tute che scrivevano col loro corpo. È così che abbiamo ingegnerizzato il
processo. Alla fine è diventato un film di Barry Jenkins”.
“Che
cosa mi auguro per la condizione del mio paese nel futuro? Sono stato a San
Paolo, a Madrid, a Parigi. Qualcuno mi ha chiesto: ‘Vuoi che le persone escano
dal film pensando che questo personaggio sia un cattivo o un essere umano
complesso?’ Ho risposto ovviamente ‘un essere umano complesso’. La ragione principale
per cui ho fatto questo film è mostrare come questi due personaggi sono esseri
umani complessi. Eppure i risultati delle loro vite sono completamente diversi
per via delle scelte che hanno fatto, delle circostanze in cui hanno dovuto
vivere. Questo vale e si applica per quello che succede nel mio paese, nel
vostro paese e in tutti i paesi del mondo. È un film che sarà tradotto e
portato in tutti i paesi del mondo. È molto importante avere queste lezioni che
mostrano che siamo tutti esseri umani molto complessi. E sono le scelte che
facciamo e le condizioni in cui viviamo che dettano quello che succede, lo
stesso vale per i nostri paesi”.
Come
sente che Mufasa si connette con i
suoi film precedenti? Per quali elementi, quali temi?
“Per molte cose.
Per esempio in Moonlight c’è la scena in cui Juan insegna al ragazzo (Chiron) a
nuotare, c’è il temporale in arrivo, lui lo tiene per 10 secondi e poi lo
lascia e lo fa nuotare in questo temporale. La stessa cosa succede in questo
film, anche se non sono io che l’ho scritto. Penso anche che Chiron in
Moonlight si sente orfano in un certo senso: la mamma c’è ma non c’è, ha questo
padre putativo che però non è presente. Lui deve attraversare la vita cercando
di costruirsi il mondo. Non riesce ad accettare di essere degno di amore.
Potrei descrivere Mufasa esattamente come descrivo Chiron. E anche Taka. Sono
rimasto scioccato da quante similitudini ci sono, ma quella più grande è stata
a livello di vita personale. Dopo questi 40 minuti che avete visto, Mufasa conosce
tanti personaggi che non conosceva e che non hanno nessun rapporto con lui. Lui
però inizia a costruirsi una nuova vita, una nuova famiglia, una nuova
comunità. Per me è stata la stessa cosa. Sono entrato alla scuola di cinema, ho
incontrato persone che vengono da mondi completamente diversi dal mio, però
alla fine abbiamo fatto film insieme per 25 anni come una famiglia che è
cresciuta insieme. Ci sono tante similitudini. Quando trovi queste cose diventa
facile appassionarsi al lavoro che si fa. Mia mamma è morta mentre stavo
facendo questo film e non mi sono reso conto come fare questo film mi stava
preparando al trauma di quell’esperienza. È folle”.
Mufasa
è la figura paterna per eccellenza, quanto pensa che oggi sia cambiato il modo
di raccontare i genitori nei film rispetto al passato?
“Credo che il
mondo sia cambiato. La comprensione dei bambini, la complessità di quello che
vedono è cambiata. Sta a noi, è nostra responsabilità, mostrare loro una illustrazione
più complessa sia di se stessi come bambini che di noi come genitori, come
persone che si prendono cura di loro, come fratelli. Se non lo facciamo gli
stiamo facendo un disservizio perché li mandiamo in un mondo in cui sono
bombardati da immagini, da stimoli, e hanno bisogno perché cercheranno questi
prodotti culturali, queste storie e guarderanno a queste cose. Vedo bambini che
stanno sempre sull’iPad quando sono in giro. Bisogna dargli qualcosa che li
possa preparare al mondo. Penso che i genitori in questo film siano in un certo
senso più complessi. Sono rappresentate delle cose più complesse, un modo più
complesso di essere genitori rispetto a quello ad esempio che i genitori
dicevano ai propri figli nei film 20 o 30 anni fa. Ma credo che quello che i
figli, i ragazzi, vedono nella quotidianità, sia molto più complesso. E questa
è una responsabilità che noi come creatori di immagini portiamo sulle nostre
spalle”.
Cosa
vorrebbe trasmettere ai giovani attraverso questo film?
“Che siamo tutti
esseri umani complessi. Io vengo da luoghi tipo Moonlight, molto duri. E chi
viene da quella realtà non arriva a Roma seduto di fronte a tutti questi
giornalisti, parlando di un film su Il Re Leone… oppure lo può fare? Credo che
Mufasa per troppo tempo è stato visto come una cosa impossibile. Da bambino
pensi che non potrai mai essere un re, un leader, qualcuno a cui la gente
guarda con ammirazione. Quello che mi piace in questo film è che abbiamo
deprogrammato l’idea di quello che ci vuole per diventare qualcuno, un leader.
Quando è uscito il primo trailer qualcuno non riusciva a credere che ci fosse
un figlio adottato al centro della storia. Mi sono reso conto che per 30 anni
Mufasa è stato il centro di questa enorme storia ed è un figlio adottivo. Ed è
una cosa meravigliosa. Tornando alla domanda posta prima, questo è il tipo di
complessità e penso che la nostra narrazione si sia evoluta in questo senso. Ci
sono grandissimi leader – in questo caso il re dei re, che è venuto fuori
essendo stato adottato. Il messaggio è che anche voi, anche se siete stati
adottati, potete essere dei grandi leader. Questo è fantastico perché dice che
non è impossibile”.
Quanto
l’ha cambiata questo film come regista, come artista e come essere umano?
“Mi ha cambiato
un po’ come regista. Quando fai un film si tratta di comunicazione. La
comunicazione di un regista può essere anche molto limitata. Ci sono tutti
questi vari cerchi sul set, quello più stretto (tra regista, direttore della
fotografia e gli attori) che dialoga. Poi man mano che ti allontani da questa
cerchia centrale comunichi attraverso la sceneggiatura o non comunichi affatto.
Invece in questo film che ha richiesto 4 anni si comunica con tutti e devi
farlo. Nessuno può vedere qualcosa da solo perché c’è questa costante
comunicazione. Devi assolutamente dare valore a ogni singola persona che
partecipa al processo. Il film è 1h e 46’ ma diventano 10 minuti in più con
tutti i titoli di coda in cui sono elencate tutte le persone con le quali ho
dovuto comunicare. È stata una lezione molto valida da imparare. Mi ha cambiato
come persona? Non lo so. Da bambino non mi sarei mai immaginato che avrei fatto
un film tipo Il Re Leone, eppure siamo arrivati alla fine di questa storia.
Sono qui a Roma a parlare con tutti quanti voi. Ci sono arrivato ed è
bellissimo. Perché a volte devo tornare al mio ex me stesso e dirmi che mi
dicevo che era impossibile e devo ricordarmi che nulla è impossibile”.
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