mercoledì 20 novembre 2024

"Mufasa: Il Re Leone" - Incontro stampa col regista premio Oscar Barry Jenkins

 di Silvia Sottile


Mufasa: Il Re Leone (qui la nostra recensione), in arrivo il 19 dicembre nelle sale italiane, esplora l'improbabile ascesa dell'amato re delle Terre del Branco. Il nuovo film di Natale Disney è diretto dal premio Oscar® Barry Jenkins. Noi abbiamo visto in anteprima i primi 40 minuti di Mufasa: Il Re Leone e abbiamo incontrato il regista in conferenza stampa. 

Ecco cosa ci ha raccontato:

La Disney l’ha voluta fortemente per questo film. Come ha reagito quando le hanno proposto di dirigere Mufasa?

Non ho mai capito perché la Disney volesse che io dirigessi questo film. Non potevo pensare che il regista di Moonlight potesse essere la persona giusta. Quando sono venuti da me la prima volta ho detto no, senza neanche aver letto la sceneggiatura. Ero in macchina, il mio agente mi ha chiamato dicendomi che la Disney mi voleva per dirigere un film su Il Re Leone, io ho detto no. Mi ha risposto che non potevamo dire di no alla Disney e quindi hanno aspettato. Mi ha anche detto una cosa positiva, che non potevano leggere loro la sceneggiatura ma potevo leggerla solo io. Dopo 8 giorni mia moglie mi ha detto che avrei dovuto leggerla perché sarebbe stato infantile da parte mia dire no senza consentirmi di vedere di cosa si trattasse. Quindi ho iniziato a leggerla. Il motivo per cui avete visto i primi 39 minuti e 15 secondi è perché lì ho fermato la mia prima lettura, mi sono girato verso di lei e le ho detto che era fantastico, forse c’era qualcosa per cui avrei dovuto prendere in considerazione la realizzazione di questo film. È stata la sceneggiatura che mi ha conquistato”.

Perché così tanti autori indipendenti come lei, Choé Zhao, Greta Gerwig (per Barbie), hanno deciso di lanciarsi in franchise mainstream?

Credo perché noi siamo la prima generazione che è cresciuta con questi franchise che non esistevano negli anni ’60, ’70. Una prima generazione che include me, Greta Gerwig, Ryan Coogler, tutti amici con i quali ho parlato prima di accettare. Siamo la prima generazione cresciuta con questi film, questi franchise mainstream che sono i film della nostra infanzia. Vedere una cosa come Il Re Leone o Toy Story o Die Hard o Terminator 2, Independence Day… questo è cinema! Questo è il cinema con il quale sono cresciuto. Avrei voluto crescere qui (in Italia), magari con tutto il cinema che ha vinto il Leone d’Oro, ma non è stato così. Quindi quando questi film arrivano a noi, non sono un’altra cosa, sono solo una parte diversa della mia vita. La mia vita è divisa in due fasi: i film che ho guardato prima di andare alla scuola di Cinema e poi i film che ho guardato dopo la scuola di Cinema. La cosa fantastica di questo film – perché per me si tratta specificatamente dei personaggi e del film, Il Re Leone, che hanno amato le persone in tutto il mondo – è che io sono qui a Roma, c’è qualcuno che mi traduce, sono andato a Madrid, a Parigi, c’è qualcuno in Corea, in Giappone, perché questo film esce in tutto il mondo. È un simbolo culturale, da 30 anni sappiamo che Mufasa è grande perché è grande, è re perché il padre era re, il nonno era re e che tutti coloro che sono nati in questo percorso possono diventare re. Che Scar è cattivo perché è nato cattivo. Eppure io ho sempre creduto alla teoria che dipende da come vieni cresciuto. Come avete visto in questi 40 minuti, Mufasa perde tutta la sua famiglia e viene portato da Taka nella sua famiglia. Il papà di Taka è la persona cattiva, gli dice tutte le cose negative. La madre di Taka invece dice a Mufasa tutte queste cose bellissime, di essere unito alla terra, di seguire le sue sensazioni. Dal momento che uno viene cresciuto da un genitore, mentre l’altro viene cresciuto dall’altro genitore, vedi come proseguono a condurre vite completamente diverse, diventano anche persone completamente diverse. Mi è piaciuto anche il fatto che la monarchia e le leadership non sono necessariamente determinate da dove sei nato ma dalla comunità che costruisci intorno a te e dalla vita che conduci. Tutte le persone in tutto il mondo guardano questi film. Ho fatto tutto quello che volevo affrontare con questo film così grande. Dovevo farlo, non avevo altra scelta”.




Quali sono i film della Disney che l’hanno fatta crescere e che l’hanno fatta sentire accettato?

Domanda insidiosa. La Sirenetta, Il Re Leone che ho amato molto perché l’ho visto tante volte con i miei nipotini. Ma quello che mi piace di più è Fantasia. Ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di bello nel modo in cui la Disney utilizzava le immagini come metafore e mi piace moltissimo questo personaggio che si muove con gli oggetti che creano una magia. Quando ho iniziato ad affrontare questo film volevo portare un po’ della magia di Fantasia nell’universo. È un film in live action dove c’è la canzone Milele, il terreno cambia colore, tutte queste farfalle che vengono fuori dal nulla, poi Mufasa fluttua nello spazio, è verde, è rosso, è come Dante, deve attraversare quest’altro reame, non sappiamo né dov’è né perché è lì. Raggiungendolo si sente questo suono che lo riporta indietro alla realtà. Nella Disney si può iniziare a fluttuare e poi tornare indietro dall’altra parte”.

La più grande sfida è stata tecnologica o musicale? C’è la colonna sonora di Lin-Manuel Miranda

Lin-Manuel Miranda, che ha scritto le canzoni del film, è intervenuto velocemente, fin dall’inizio. Io non avevo mai fatto un musical, mi piace fare cose che non so come fare ma devo sempre avere intorno qualcuno che sa come si fanno. Lui è intervenuto da subito, è stato molto chiaro dicendo che gli piaceva molto l’eredità di The Lion King, non voleva sostituire quella canzone. Le canzoni dovevano aiutare a raccontare la storia, non dovevano sostituirla o distrarre dalla storia. La più grossa sfida non è stata la musica perché Lin-Manuel Miranda e i miei collaboratori hanno lavorato insieme per creare questa musica meravigliosa. La tecnologia è stata più difficile. Mi piace fare film con gli esseri umani, avere tutte queste persone in una stanza, su un set, che sono tutti seduti sotto la stessa luce, sentiamo lo stesso vento, abbiamo le macchine da presa, gli obiettivi, gli attori si muovono tutti, cerchi di far lavorare tutti di concerto in modo da poter cogliere e inserire una specie di lampo in una bottiglia. Impossibile con la tecnologia, richiede molto più tempo, devi imparare a utilizzarla in maniera tale da padroneggiarla, piuttosto che far sì che la tecnologia padroneggi noi. Era la tecnologia al nostro servizio e non il contrario. Questa è stata la parte più difficile. C’è voluto un anno e mezzo per arrivare a questo punto, c’è voluta tanta pazienza. E poi ci sono voluti in tutto 4 anni. Negli ultimi due anni e mezzo in effetti abbiamo fatto il film”.

Si diceva che questo non sarebbe stato un film di Barry Jenkins, invece da queste prime immagini scopriamo che è proprio un film di Barry Jenkins. Come ha lavorato per portare la sua poetica in questo film? Lei che sogni ha oggi per il suo paese?

“Grazie per aver detto che è un film di Barry Jenkins. Quando ho letto la sceneggiatura ho pensato che poteva diventare un film di Barry Jenkins. Con tanto lavoro, ma ci poteva diventare. Coloro che hanno fatto gli effetti speciali sono stati molto generosi con me. Dovevo cercare di capire come far funzionare questo processo nel mio modo di lavorare. Mi servivano anche le persone che lavorano sempre con me. Volevo che fossero coinvolte in questo processo. Quindi il direttore della fotografia, scenografo e montatrice. I film sono costruiti da questi tre blocchi. Io e queste tre persone abbiamo imparato a capire gli strumenti che possiamo cominciare a piegare alla nostra volontà e la società degli effetti speciali è stata molto aperta con noi. Dal momento che questi personaggi si muovono su 4 gambe, mentre gli esseri umani su 2, non potevamo fare come ne Il Pianeta delle Scimmie. Quindi abbiamo prima registrato le voci degli attori, abbiamo fatto una specie di radio dramma. Poi il film è stato montato basandosi sulle voci. Prima l’abbiamo proiettato su nero, poi sono arrivati gli storyboard che corrispondessero e da lì abbiamo creato una versione PlayStation 3 del film. Poi dovevamo girare in realtà virtuale ma ho trovato un problema. Con gli esseri umani si può capire cosa prova un’altra persona, anche senza parole, con lo sguardo, un movimento, un’espressione. Ovviamente questo non si vede con i leoni. Era importante trasmettere tutto col movimento fisico e questo l’animatore non lo può fare. Allora abbiamo trovato un modo: invece di coinvolgere gli attori per il motion capture, abbiamo portato con le tute gli animatori perché loro sapevano come tradurre il movimento da due gambe a quattro. Hanno cominciato a disegnare con il corpo. Proiettavamo sullo stage il suono delle voci degli attori ed è stato più semplice. È stato molto forte per me che dovevo dirigere gli animatori con le tute che scrivevano col loro corpo. È così che abbiamo ingegnerizzato il processo. Alla fine è diventato un film di Barry Jenkins”.

“Che cosa mi auguro per la condizione del mio paese nel futuro? Sono stato a San Paolo, a Madrid, a Parigi. Qualcuno mi ha chiesto: ‘Vuoi che le persone escano dal film pensando che questo personaggio sia un cattivo o un essere umano complesso?’ Ho risposto ovviamente ‘un essere umano complesso’. La ragione principale per cui ho fatto questo film è mostrare come questi due personaggi sono esseri umani complessi. Eppure i risultati delle loro vite sono completamente diversi per via delle scelte che hanno fatto, delle circostanze in cui hanno dovuto vivere. Questo vale e si applica per quello che succede nel mio paese, nel vostro paese e in tutti i paesi del mondo. È un film che sarà tradotto e portato in tutti i paesi del mondo. È molto importante avere queste lezioni che mostrano che siamo tutti esseri umani molto complessi. E sono le scelte che facciamo e le condizioni in cui viviamo che dettano quello che succede, lo stesso vale per i nostri paesi”.




Come sente che Mufasa si connette con i suoi film precedenti? Per quali elementi, quali temi?

Per molte cose. Per esempio in Moonlight c’è la scena in cui Juan insegna al ragazzo (Chiron) a nuotare, c’è il temporale in arrivo, lui lo tiene per 10 secondi e poi lo lascia e lo fa nuotare in questo temporale. La stessa cosa succede in questo film, anche se non sono io che l’ho scritto. Penso anche che Chiron in Moonlight si sente orfano in un certo senso: la mamma c’è ma non c’è, ha questo padre putativo che però non è presente. Lui deve attraversare la vita cercando di costruirsi il mondo. Non riesce ad accettare di essere degno di amore. Potrei descrivere Mufasa esattamente come descrivo Chiron. E anche Taka. Sono rimasto scioccato da quante similitudini ci sono, ma quella più grande è stata a livello di vita personale. Dopo questi 40 minuti che avete visto, Mufasa conosce tanti personaggi che non conosceva e che non hanno nessun rapporto con lui. Lui però inizia a costruirsi una nuova vita, una nuova famiglia, una nuova comunità. Per me è stata la stessa cosa. Sono entrato alla scuola di cinema, ho incontrato persone che vengono da mondi completamente diversi dal mio, però alla fine abbiamo fatto film insieme per 25 anni come una famiglia che è cresciuta insieme. Ci sono tante similitudini. Quando trovi queste cose diventa facile appassionarsi al lavoro che si fa. Mia mamma è morta mentre stavo facendo questo film e non mi sono reso conto come fare questo film mi stava preparando al trauma di quell’esperienza. È folle”.

Mufasa è la figura paterna per eccellenza, quanto pensa che oggi sia cambiato il modo di raccontare i genitori nei film rispetto al passato?

Credo che il mondo sia cambiato. La comprensione dei bambini, la complessità di quello che vedono è cambiata. Sta a noi, è nostra responsabilità, mostrare loro una illustrazione più complessa sia di se stessi come bambini che di noi come genitori, come persone che si prendono cura di loro, come fratelli. Se non lo facciamo gli stiamo facendo un disservizio perché li mandiamo in un mondo in cui sono bombardati da immagini, da stimoli, e hanno bisogno perché cercheranno questi prodotti culturali, queste storie e guarderanno a queste cose. Vedo bambini che stanno sempre sull’iPad quando sono in giro. Bisogna dargli qualcosa che li possa preparare al mondo. Penso che i genitori in questo film siano in un certo senso più complessi. Sono rappresentate delle cose più complesse, un modo più complesso di essere genitori rispetto a quello ad esempio che i genitori dicevano ai propri figli nei film 20 o 30 anni fa. Ma credo che quello che i figli, i ragazzi, vedono nella quotidianità, sia molto più complesso. E questa è una responsabilità che noi come creatori di immagini portiamo sulle nostre spalle”.

Cosa vorrebbe trasmettere ai giovani attraverso questo film?

Che siamo tutti esseri umani complessi. Io vengo da luoghi tipo Moonlight, molto duri. E chi viene da quella realtà non arriva a Roma seduto di fronte a tutti questi giornalisti, parlando di un film su Il Re Leone… oppure lo può fare? Credo che Mufasa per troppo tempo è stato visto come una cosa impossibile. Da bambino pensi che non potrai mai essere un re, un leader, qualcuno a cui la gente guarda con ammirazione. Quello che mi piace in questo film è che abbiamo deprogrammato l’idea di quello che ci vuole per diventare qualcuno, un leader. Quando è uscito il primo trailer qualcuno non riusciva a credere che ci fosse un figlio adottato al centro della storia. Mi sono reso conto che per 30 anni Mufasa è stato il centro di questa enorme storia ed è un figlio adottivo. Ed è una cosa meravigliosa. Tornando alla domanda posta prima, questo è il tipo di complessità e penso che la nostra narrazione si sia evoluta in questo senso. Ci sono grandissimi leader – in questo caso il re dei re, che è venuto fuori essendo stato adottato. Il messaggio è che anche voi, anche se siete stati adottati, potete essere dei grandi leader. Questo è fantastico perché dice che non è impossibile”.

Quanto l’ha cambiata questo film come regista, come artista e come essere umano?

Mi ha cambiato un po’ come regista. Quando fai un film si tratta di comunicazione. La comunicazione di un regista può essere anche molto limitata. Ci sono tutti questi vari cerchi sul set, quello più stretto (tra regista, direttore della fotografia e gli attori) che dialoga. Poi man mano che ti allontani da questa cerchia centrale comunichi attraverso la sceneggiatura o non comunichi affatto. Invece in questo film che ha richiesto 4 anni si comunica con tutti e devi farlo. Nessuno può vedere qualcosa da solo perché c’è questa costante comunicazione. Devi assolutamente dare valore a ogni singola persona che partecipa al processo. Il film è 1h e 46’ ma diventano 10 minuti in più con tutti i titoli di coda in cui sono elencate tutte le persone con le quali ho dovuto comunicare. È stata una lezione molto valida da imparare. Mi ha cambiato come persona? Non lo so. Da bambino non mi sarei mai immaginato che avrei fatto un film tipo Il Re Leone, eppure siamo arrivati alla fine di questa storia. Sono qui a Roma a parlare con tutti quanti voi. Ci sono arrivato ed è bellissimo. Perché a volte devo tornare al mio ex me stesso e dirmi che mi dicevo che era impossibile e devo ricordarmi che nulla è impossibile”.


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